Intervista a Phil Marturano

Intervista a Phil Marturano

Intervista a Phil Marturano

 

Un concerto per presentare agli italiani e ai tarantini il suo ultimo album. Quello tenuto dal famoso batterista statunitense Phil Marturano, che ha proposto con “At home everywhere una musica sperimentata lontano dall’America, e direttamente percepita dalle popolazioni e culture locali che ha conosciuto durante le sue avventure artistiche. Per l’occasione, il percussionista, che ha impressionato l’esecuzione e il suo talento, è stato dal giovane bassista Luca Alemanno e dal pianista Mirko Maria Matera. Nove brani che hanno messo in risalto una contaminazione ricca di sonorità afro e marcate, ed un’intensità sostenuta lontana dai ritmi del jazz fusion e classico.

At Home Everywhere, nasce da un’esperienza personale a seguito di una rivisitazione personale di luoghi e persone accomunate da un filo conduttore: la musica.

Il mio album nasce dopo alcune esperienze personali vissute in quattro anni di lunghi viaggi in giro nel mondo, e specialmente in India. Una sera mentre passeggiavo per le strade della mia New York, ho avvertito delle sensazioni particolari nel mio essere. Ho sentito la libertà del mio spirito, nella sua capacità “sentirsi a casa” in ogni posto e in ogni luogo, ovunque ci fosse musica. Filo conduttore in grado di unire mondi e civiltà diverse e di portarle ad esprimersi con un linguaggio univoco ed universale.

Quali differenze musicali nel contesto della musicalità jazz hai notato durante questi viaggi?

Ogni civiltà ha una propria interpretazione musicale che si forgia con il proprio mono culturale e sociale. Bisogna essere capaci di adattarsi al contesto locale, per meglio comunicare con la gente. In India per esempio, ho avuto modo di sperimentare un jazz diverso da quello classico, avvalendomi di musicisti e amici addentrati nella cultura asiatica. Percorrendo questo cammino, sono riuscito ad esprimermi in maniera adatta, dando la possibilità di ascoltarmi meglio e di percepire le necessità delle persone del posto.

Il tuo ultimo lavoro è ricco di percussioni che scandiscono una ritmica marcata. Da dove deriva questa scelta?

Ho inserito i ritmi che caratterizzano la melodia indiana. La musica di quei posti segue un andamento molto lineare. Ho riproposto tale susseguo, cercando di riportalo in maniera più semplice possibile, senza dover ricorrere a forzature. Il mio intento è stato quello di riprodurre un linguaggio più naturale possibile. Tutto ciò si ripercuote nella necessità di sperimentazione musicale, che nel jazz ha l’obiettivo di comunicare in maniera trasversale e totale.

Quale messaggio vorresti che arrivasse all’ascoltatore?

Durante i miei concerti e l’ascolto di questo album, il pubblico deve abbandonarsi all’ascolto profondo e calarsi in una realtà fatta di ritmi, sfaccettature ed emozioni. Voglio far rivisitare le stesse che ho provato scrivendo quest’album, ed è necessario che l’ascoltatore si sintonizzi alla stessa mia frequenza musicale. Deve crearsi una sorta di interscambio tra me e gli spettatori, soltanto in questo modo posso comunicare il mio jazz.

 

Paride Sgobba

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